martedì 1 novembre 2011

Ancora sul teorema d’ Haavelmo e la madornale fandonia del vincolo dei conti pubblici per una politica di sviluppo.




In un precedente scritto ricordavamo a questo impresentabile governo Berlusconi - ma anche ai silenziosi sinistri della “sinistra” che quanto a liberismo hanno una coda lunga quanto la via Lattea - che la situazione del nostro doppio deficit dei conti pubblici (quello di bilancio e quello del debito) non giustifica affatto il falso stallo di una politica economica che voglia rilanciare lo sviluppo. Stallo che sarebbe dovuto al fatto che, per definizione, le risorse per una tale politica peggiorerebbero senza alternative i suddetti deficit ( il ministro Tremonti scomoda la fisica a tal proposito citando il principio dei “vasi comunicanti”, dove con tale accenno egli ci ricorda la sua “indimenticabile” lectio magistralis ad “Anno Zero” ). Questo ragionamento (?) in verità è un entimema: ammette implicitamente una ipotesi che pare condivisa sia dalla maggioranza che dalla sedicente opposizione ovvero dai loro staff di economisti(ci) patentati: che misure di intervento anticicliche debbano necessariamente essere finanziate in deficit, appunto. A questo riducendosi frasi del tipo “non ci sono soldi” per lo sviluppo. Tacitamente condivise dal silenzio-assenso su questo centrale punto da parte delle “opposizioni”. Il meglio ( si fa per dire ) da parte dello schieramento politico dei “progressisti” è infatti rappresentato dalla autobattezzatasi “rive gauche” formata dai keynesian-marxisti i cui manuali di riferimento riportano fino alla nausea i precetti della spesa statale in deficit dell’ economista cantabrigese , interventista ( Lukacs in Storia e coscienza di classe con molta finezza “filosofica” - ignorata dai rivegauchiste da bancarella di oggi - sottolineava come “fatalismo” e “volontarismo” in un quadro storico sociale dato e ipostatizzato sono termini polarizzati “correlativi”: insomma come la filosofia economico-sociale di Lord Maynard sottendesse “gattopardismo puro” ) per antonomasia, e pur sempre cantore del capitalismo.
Citavamo a eterno scorno degli esperti “ufficiali” in “scienza triste” e a sostegno della nostra confutazione - e pur nei limiti affatto non condivisi della “scienza economica” canonizzata - il premio Nobel 1989 Trygve Haavelmo e il suo eponimo teorema, il cui massimo difetto storico risiederebbe oggi nel fatto che detto teorema implicherebbe nuova spesa pubblica, seppur finanziata con pareggio di bilancio o meglio senza incidere su un suo eventuale pregresso valore negativo. Anzi, pur nei limiti in cui Haavelmo concepì il suo contributo, una spesa statale finanziata con pari tasse inciderebbe virtuosamente e su eventuali deficit sia di bilancio che del debito pubblico.
E qui ci fermavamo non senza collegare questo dimenticato capitolo di economia ortodossa alla possibilità di finanziare la spesa pubblica in discorso con una tassazione patrimoniale; che anche alcuni dei più ricchi italiani si sono dichiarati pronti a sostenere e a propagandare nelle attuali difficili circostanze. Tranne naturalmente il più ricco tra loro che nell’ennesimo caso di conflitto d’interesse si erge a baluardo esplicito dei colleghi degli yacth clubs.
Ma già sentiamo i rumori successivi agli affannosi e superficiali controlli sui polverosi testi degli “addetti ai lavori” con connessa possibile replica: aver specificato che il teorema del Nobel norvegese è stato concepito fuori dal contesto di politiche anticicliche sarebbe stato una furbata: in un tal quadro gli effetti moltiplicatori sul Pil di una spesa pubblica coperta da tasse si ridurrebbe a poca cosa . Ancor più piccola se si passa dalla ipotesi di una “economia chiusa“, cui riduttivamente facevo io riferimento nel ricordare la formula dell’Haavelmo, iscrivendo quest’ultima in un panorama di “mercato aperto” ; dove il moltiplicatore subisce una decurtazione pari alla propensione media/marginale alle importazioni (Imp ) pari a q. Con riferimento grosso modo ai dati dell’economia italiana, assumendo che la propensione media/marginale al consumo c sia pari a 0,8, e q sia pari a 0,3, indicando con ΔY e ΔG rispettivamente l’effetto sul Pil ( Y ) di una spesa statale ad hoc ΔG finanziata con equivalente tassazione pari a ΔT (ΔG=ΔT), l’ “effetto Haavelmo” ΔY ( chiamiamolo così) sarebbe calcolabile nei seguenti termini:
ΔY= (1 - c / 1 - c + q ) ΔG = 0,4 ΔG. [I]
Insomma l’effetto Haavelmo” sull’aumento del Pil si ridurrebbe a meno della metà della spesa pubblica coperta con tassazione equivalente.
Insomma avrei cercato di fare “molto rumore per nulla” o poco più, “sorvolando” sul fatto che l’effetto moltiplicatore della spesa pubblica in discorso risente pesantemente dell’effetto demoltiplicatore legato alla tassazione per un pari importo di detta spesa; per cui quel po’ di beneficio connesso al teorema di Haavelmo si ridurrebbe alla piccola differenza tra i due membri della seguente sottrazione :

(ΔG / 1- c + q) - ( cΔG / 1- c + q) [ II]
dove il primo membro a sinistra del segno meno è il normale moltiplicatore del reddito (con spesa pubblica finanziata in deficit ) e il secondo termine è il demoltiplicatore del reddito, equivalente alla somma sottratta con prelievo fiscale alla somma altrimenti detenuta dai privati e spesa con propensione media/marginale al consumo minore dell’unità ( a differenza del settore pubblico che la spenderebbe interamente).
Ma una tale potenzialmente possibile controargomentazione alla mia “criptica” proposta di politica economica è del tutto inconsistente perché non sviluppa ciò che per pauci sed electi lasciavo all’intelligenza dei miei possibili lettori competenti.
Il tutto si incentra sulla mia proposta di tassare i patrimoni e/o attività speculative del tutto capitalisticamente improduttive come anche le eventuali ingenti risorse monetarie che nella situazione di totale stagnazione dell’economia si detengono certamente in forma liquida (tesoreggiamento) in attesa di “tempi migliori” : per esempio i capitali scudati con ridicola imposta il cui ammontare cospicuo ha mancato assolutamente di trasformarsi in investimenti come si è ritenuto dovesse avvenire da parte delle “ingenue” attuali “autorità” di politica economica.
Con elementare logica economica che non cada nei trabocchetti dei “grandi aggregati” si può così infatti ragionare.
Nel secondo membro a destra del segno meno nella [II] , c è lecitamente ponibile come eguale a zero, con conseguente scomparsa del termine stesso, il che economicamente equivale a tener conto che la somma tassata è assolutamente sottratta alla formazione del reddito nazionale per le ipotesi da me formulate circa i “contribuenti “e i cespiti da tassare.
Ma ciò non è tutto. Anche nell’unico membro rimasto della [II] le ragioni che a tale “solitudine” hanno condotto riverberano effetti significativi che potenziano l“effetto Haavelmo” sul Pil sotteso alla mia proposta. Il valore di c non è quello medio dell’intero aggregato del consumo che è la media tra i valori più bassi delle classi di reddito più ricche e quello più alto delle classi più povere.
Gli investimenti della spesa pubblica in oggetto dovrebbero riguardare lavoratori del depresso settore industriale se non lavoratori disoccupati e/o in cassa integrazione che porterebbero verosimilmente a poter assumere c = 1. Inoltre i consumi essenziali di cui sono imputabili i lavoratori delle categorie suddette sono a bassissimo e trascurabile componente di importazioni ( in Italia si mangia italiano, almeno sino a ora e grazie alla “Globalizzazione” come ai tempi di Ricardo non è azzardato assumere che i salari siano a livello di sussistenza, storicamente intesa ), per cui con approssimazione largamente in difetto possiamo ammettere che il moltiplicatore della spesa pubblica in pareggio con le qualificazioni apportate sia individuabile intorno a un valore di grandissimo rispetto:
1 / 1 - 0,8 = 5.

Vediamo di trasformare in cifre verosimili la possibile manovra. Partiamo dalla curva di concentrazione del reddito in Italia. Il 10% della popolazione ( diciamo 5.700.000 persone circa ) detiene più o meno il 50% del Pil , e quindi poniamo che tale fetta di reddito sia di circa 800 miliardi di euro. Ipotizziamo che tale grandezza rappresenti ( per tenerci molto bassi) solo un quinto dei rispettivi “patrimoni. Tassando per la modesta cifra dello 1% tali patrimoni si ha un totale complessivo di entrate dello Stato di circa 40 miliardi di euro ( intorno ai 7 miliardi di euro in media per ogni testa di superprivilegiati). Naturalmente non teniamo conto del fondamentale corollario per cui una tale tassazione costituirebbe, in occasione di una tale “patrimoniale” , un momento cardine e sperabilmente irreversibile in termini di lotta e recupero della scandalosa evasione fiscale nel nostro ex “Bel Paese”.
Investiti dallo Stato ( direttamente o indirettamente su sua commessa al settore privato) i suddetti 40 miliardi di euro , l’effetto Haavelmo, grazie al moltiplicatore del reddito pari a 5, ammonterebbe all’intorno 200 miliardi di euro. Tenuto conto dei 22 milioni e 890.000 circa di occupati che alimentano il Pil italiano,i predetti 200 miliardi di “effetto Haavelmo” porterebbero a incrementare l’occupazione di 2 milioni e 800.00 posti di lavoro.
Se ora abbattiamo, per mera cautela ideologico-contabile, la tassazione allo 0,5% per non urtare gli interessi costituiti e ipotizzando solo una volontà politica di stampo assolutamente moderato, com’è nel panorama politico italico attuale, comunque saremmo dinanzi a un impennata del Pil di oltre il 6%, con finalmente il famoso mito di un milione di “nuovi posti di lavoro” superato del 40% (se ben si pensa a non rifinanziare settori condannati dal darwinismo della “Globalizzazione” e attualmente tenuti nel mortifero frigorifero della “cassa integrazione” e dintorni). Se poi si esce dalla riduttiva ottica della macroeconomia keynesiana che porta a omologare consumi e investimenti circa gli effetti del moltiplicatore sul reddito nazionale e si pensa che gli investimenti dovrebbero e poterebbero essere finalizzati all’aumento della produttività del lavoro attraverso il sostegno a settori tecnologicamente innovativi, sul medio-lungo periodo gli effetti della spesa statale in predicato sarebbero ancora più significativi. E data la natura pubblica della spesa lo Stato potrebbe per gran parte ridurre l’obolo che l’apertura dei mercati comporta in termini di importazioni e/o di delocalizzazioni. Spettri questi che incombono altrimenti sulla destinazione delle risorse in mani private.
Già dalla prima attuazione della misura di politica economica in oggetto il rapporto debito/Pil scenderebbe di oltre 6 punti percentuali ( dal 120% all’intorno del 113% ) senza macelleria sociale, richiedendosi solo la fine di un superstizioso tabù scientificamente protestato dalla realtà prima ancora che dalla teoria: “meno Stato e più mercato”, grido di battaglia della più articolata filosofia politica del miniarchismo.
È appena il caso di rilevare ciò che qui non è calcolato ma che non va sottovalutato, e cioè come con l’aumento del Pil aumentino anche le normali ( a prescindere dalla misura in discorso) entrate fiscali dello Stato con miglioramento dei due (flusso e stock del debito) deficit dei conti pubblici. Per pura indicazione, assumendo che tra imposte dirette e indirette le entrate fiscali implicate da un aumento del reddito di 100 miliardi ammontino a 33,33miliardi ( un carico fiscale complessivo del 30% di 100 miliardi) tanto per tenerci molto bassi, risulta evidente il circolo virtuoso che si instaurerebbe tra saggio di crescita, livello di occupazione e abbattimento del debito sovrano in barba alla falsità della mancanza di alternative al binomio spesa statale eguale deficit di bilancio.
Rendendo la redistribuzione del carico fiscale appena abbozzata strutturale, e lasciando quindi intoccati i piccoli patrimoni e ripristinando il welfare in via di progettato smantellamento, attuando dunque lettera e spirito della nostra Magna Charta, nel breve volgere di pochi anni oltre a raggiungere livelli da pieno impiego si risolverebbe dunque alla radice il problema del macigno attuale del debito “sovrano”. Che come può vedersi è tutt’altro che un mostro; beninteso impostando in termini più equi una idonea politica fiscale e ridimensionando quanto basta la dissennata infatuazione pro libero scambio assumendo in tal senso la guida di un autentico “New Deal” di un radicalmente riformulato europeismo ( per esempio con una aggiornata logica su scala euro di quello che è stato l’IRI nella fortunata stagione della rinascita economica italiana a guida di un illuminato “Stato imprenditore”).
Ma per fare tutto questo, di cui abbiamo svolto solo una verosimile prefigurazione quantitativa e solo su scala patria, prefigurazione affinabile a questo punto dai cultori di una scienza economica in (e con) ”Stato” comatoso (per l’universalmente proclamato e diffuso anti-statalismo), si deve combattere quel pernicioso dogma che coincide con la “privatizzazione del mondo”. Non fosse per il fatto che con tale parola d’ordine condivisa ”a dritta e a manca” ( che neanche a farlo apposta appare più che un modo di dire una profezia , per il dissolversi della “sinistra” come contrario di “destra” che a sua volta si è squalificata omologandosi al sinonimo “dritta” ) si è prodotta la peste economica attuale e che solo nel “teatro dell’assurdo “ è concepibile prescrivere come cura di una malattia in stato pandemico il morbo della stessa . Beneficiando dell’insegnamento che proviene da ben altro territorio scientifico nel quale vale il principio di Pasteur : dove dosi inibite e rese innocue dei bacilli servono proprio a vaccinare e quindi ad “armare “gli anticorpi contro gli esiti potenzialmente infausti portati dal germe infettivo. Eppure della negazione assurda di tale principio , quanto a “logica”, si tratta in termini terapeutici da parte degli attuali sciamani, che in veste di esperti non mancano di prescrivere come cura per la peste economica attuale la peste stessa .

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